L’angoscia e la letteratura contemporanea (1947)

«L’Italia Socialista», Roma, 10 giugno 1947, p. 3.

L’angoscia e la letteratura contemporanea

Non è nel senso specifico del concetto kierkegaardiano connesso al peccato d’Adamo che l’angoscia pretende alla sua posizione di fremente segreto e irresistibile della poetica moderna, ma certo è la sua ricchezza di riferimenti psicologici, spirituali, ideali che concentrandosi in direttive di costruzione artistica giustifica dall’interno, piú di qualunque altro motivo di civiltà, la tensione delle nostre opere letterarie. Ogni scatto che supera i limiti della calligrafia, nell’ermetismo come nel neorealismo americano, ogni trepido appello che sommuove la piú docile arcadia dei nostri giorni si riferisce a questa coscienza segreta di una ferita profonda che l’attività civile, l’impeto delle costruzioni razionali non riescono a colmare nel segno di una città dell’uomo che pure trae le sue migliori origini dall’insoddisfazione, dalla divina provvisorietà dell’uomo moderno. Cerchio civile in cui proprio l’arte simboleggia lo stimolo piú fecondo di una protesta permanente contro l’attivismo a vuoto e il placido idillio di giorni senza il loro affanno.

Per quanto modesti e concreti si voglia essere, ariostescamente letterati del «cor sereno» e artigiani guardinghi di fronte ad ogni deviazione dal mestiere, da quando il romanticismo irruppe dal fondo piú intenso della coscienza poetica, la «decorazione» artistica fu sempre piú vana in quanto segretamente pervasa dall’angoscia della situazione umana di cui Leopardi o Vigny davano le loro perfette ed esplicite testimonianze.

Lungi da un elogio di zingaresche improvvisazioni e di vuote sublimità postromantiche, appare al lettore piú attento che sotto la fermezza che è di ogni vera poesia, sotto il «finito» di ogni poesia realizzata, il letterato moderno specie dopo la crisi baudelairiana ha nutrito un fermento di inquietudine, di tensione che, anche fuori dei suoi risultati piú patologici (il «decadentismo»), illuminata dall’esempio della nozione kierkegaardiana, si può ben chiamare angoscia. Provatevi, limitandoci alla nostra letteratura, a leggere Montale, Svevo, perfino Cecchi senza questo riferimento e le loro ricerche artistiche perdono quell’intima furia che muove le loro parole nell’organismo piú intimo della loro struttura artistica. E quei motivi contenutisticamente diversamente qualificabili e originali nel loro ritmo, nel loro tono, che tendono le pagine di Moravia o di Alvaro, non sono quasi “velo” di un’angoscia che anima la loro conoscenza della vita? Spezzate un verso di Saba

cuciono tetre allegre bandiere

e come vi sentite lontani da quei poeti settecenteschi che si potrebbero citare per la sua musica di canzonette.

Un tempo nella rozza mitologia freudiana si cercò con maggiore o minore raffinatezza quasi uno strumento di interpretazione critica della letteratura moderna, la giustificazione di un averno di sensazioni nascosto sotto il ritmo piú realizzato, e la memoria di riferimento proustiano, l’analogia che supera la sintassi solida di una struttura di calma certezza, parvero i fili da seguire nel labirinto della poetica moderna e divennero perfino i segni di una moda letteraria. Ma un’attenzione ulteriore, che non dimentica mai d’altra parte il compito realizzatore della poesia, ha fatto sentire a molti che il valore di quegli strumenti era connesso ad un piú largo riferimento spirituale cui senza dubbio contribuí potentemente l’indicazione dell’esistenzialismo: non per una nuova estetica, ma per la comprensione di una poetica che tende a soddisfare artisticamente la tensione ansiosa dell’uomo moderno perfino nel suo tentativo di afferrarsi alla testimonianza degli oggetti come possibilità di pace e di idillio. Quasi come l’inquieto di cui parla Kierkegaard, fisso a pacificarsi nella contemplazione dei gigli del campo e degli uccelli nel cielo, che poi finisce per investirli della propria angoscia e a farne appoggio di nuova tensione.

L’amuleto della Dora Markus montaliana diventa la testimonianza di una inquietudine che cerca invano di placarsi, lo spunto di uno scatto, non di una distensione. Vi furono e vi sono scrittori che cercarono in un alto senso di buongustai di opporre a questa vasta poetica una linea di scrittura e di pagina apparentemente piú ferma e riempita di tradizionale «serenità», di bonarietà narrativa, ricercando quasi contenutisticamente una vittoria della forma e del «bello scrivere»: e qui si potrebbe riaprire una lunga questione sulla letteratura degli ultimi vent’anni in certi suoi aspetti di conservazione tradizionale, tanto piú evidenti nel loro valore salutare di resistenza a pericoli di tumulto informe (quasi come certe prove del secondo Settecento di fronte all’urgere dei fermenti preromantici stranieri) e di opaca limitatezza proprio ora che ad un occhio piú calmo si compone un piú vasto orizzonte. Non è però su quella strada che si apre una possibilità di nuova poetica.

Proprio chi, senza cedere ai facili venti di esperienze indiscriminate e fedele alla dura legge del lavoro artistico nella sua esigenza «artigiana», sente la complessità del momento di civiltà che viviamo (potente ingorgo di valori che richiedono una soluzione integrale), sente insieme che quanto ci urge, ardore di giustizia, protesta contro l’inganno dei miti, trova nella poetica dell’angoscia un segno che turba e rassicura e la inserisce in quella vasta ansia di «tramutazione» (secondo la parola di una esperienza religiosa) che invade, nella massima concretezza della costruttività, chiunque vive intensamente e unitariamente i valori moderni. Non si tratta di attendere una messianica epifania di arte nuova come nuova serenità classica fiorita su di un nuovo dramma romantico. Ma certo una esperienza tanto vitale e tanto sincera darà, nella sua sostanziale fedeltà all’arte e nella sua compatta trama storica, possibilità non retoriche di «costruzione» artistica. E non è con i rabeschi esili e gustosi, disegnati sul margine della poetica dell’angoscia, che la letteratura dell’uomo moderno si avvierà ai toni sublimi di un nuovo Inno alla gioia.